Empatia Vs Sintonia: ecco come dovrebbe porsi un coach

Le persone che scelgono di lavorare nella relazione d’aiuto, coaching incluso, spesso sono mosse dalla voglia di aiutare gli altri, di fare la differenza il più possibile per un pezzetto di mondo.

Questo aspetto, che è bellissimo e ricco di intenzioni meravigliose, nasconde rischi ed insidie che possono danneggiare sia il nostro cliente che noi stessi in quanto professionisti.

Ogni medaglia ha la sua altra faccia e in questo articolo ti parlerò dell’altra faccia dell’empatia e di quali siano gli atteggiamenti migliori da tenere nei riguardi dei nostri clienti. Non parleremo di cose scontate come “non avere relazioni sentimentali con un cliente” (perché sono scontate vero?!), ma di insidie più subdole e che saltano meno all’occhio di chi è mosso da sincere intenzioni altruistiche.

Cos’è l’empatia

“In psicologia, per empatia si intende la capacità di comprendere lo stato d’animo e la situazione emotiva di un’altra persona, in modo immediato e talvolta senza far ricorso alla comunicazione verbale” (lo dice la Treccani se te lo stessi chiedendo).

Ora, come dicevamo, questa idea di sapersi mettere nei panni degli altri è bellissima e può essere molto importante come capacità da acquisire per fare bene il nostro lavoro, ma con le dovute precauzioni e specifiche.

Intanto sul termine c’è molta confusione, perché a livello teorico ci sono molte sfumature e in scuole diverse si vive il costrutto di empatia in modi diversi.

In alcune scuole di psicologia è ben chiaro che ci debba essere comunque un distacco emotivo mentre si comprende lo stato emotivo dell’altro, mentre nell’uso comune o in altri ambienti formativi si intende empatia con il suo senso più etimologico: la capacità di “patire-con”, sentire quello che sente l’altra persona.

Quindi spero non me ne vorrai se fino ad ora hai considerato il termine “empatia” con una sfumatura diversa da quella che troverai qui; perché il senso dell’articolo non vuol essere una dissertazione filolinguistica sul significato profondo di empatia (bellissima eh, ma poco adatta al coaching e al tono di questo blog!), ma una riflessione pratica e concreta su come gestire a relazione con i propri clienti per non farsi male in due, o non perdere di efficacia.

Ecco a voi Salvatore!

Torniamo quindi al nostro ragionamento iniziale: molte persone intraprendono il lavoro nel campo della relazione d’aiuto perché spinti dal profondo desiderio di aiutare gli altri.

Dentro ogni coach o terapeuta vive un Salvatore che vorrebbe addossarsi i problemi e le sofferenze del cliente pur di vederlo stare meglio.

È una parte di noi che ha origini culturali, e che parte dall’idea (errata) che sia davvero possibile salvare gli altri. Le persone che svolgono altri lavori hanno comunque un proprio “Salvatore interiore” che spesso canalizzano verso il partner, i genitori, i figli, i migliori amici, i colleghi di lavoro…

Ci tengo a precisare che non c’è nulla di male nel voler sostenere e aiutare gli altri, ma quando non sono consapevole di avere un Salvatore dentro di me, potrei esagerare senza accorgermene.

Potrei sviluppare la presunzione di sapere cosa sarebbe meglio per l’altro, cosa dovrebbe fare l’altro per risolvere i propri problemi, quali scelte dovrebbe compiere per cambiare la propria vita o per essere felice.

Vi è mai capitato di sentirvi così nei confronti delle persone a cui volete bene?

Di desiderare di poter portare i loro problemi sulle vostre spalle, di risolverglieli voi pur di vederli stare meglio e in fretta?

Di desiderare che queste persone facessero scelte precise per loro stesse? E di arrabbiarvi con loro in caso contrario?

Queste sensazioni sono proprio l’espressione dell’azione del nostro “Salvatore interiore”, che ci condiziona e che parte dall’idea che noi siamo meglio degli altri, e/o che sappiamo cosa dovrebbero fare e/o che potremmo far compiere agli altri scelte migliori.

Questo meccanismo parte da molto lontano, ed è un meccanismo molto diffuso. Se ne siamo consapevoli, se impariamo a gestirlo, può essere una grandissima risorsa per noi, per le persone a cui vogliamo bene e per i nostri clienti.

Perché un Salvatore gestito con consapevolezza, saprà motivarmi a sostenere gli altri e mi darà la capacità e la voglia di condividere quel punto di vista esterno che spesso è davvero più lucido di quello che ha chi vive un problema dall’interno.

E quindi questi rischi?

Cosa succede se invece non conosco bene il mio Salvatore e lo lascio agire indisturbato e dettar legge?

Succede che mi arrabbio o cerco di imporre il mio punto di vista: prima ai miei amici, partner, famiglia… e poi ai miei clienti.

Succede che inizio a sentire sulla mia pelle la sofferenza del cliente, perché me ne faccio carico personalmente, e perdo di lucidità.

Molto spesso nel nostro lavoro serve fare domande scomode, o stare in silenzio, o lasciare che un cliente elabori consapevolezze frustranti. O lasciare che viva il proprio dolore o le proprie emozioni con i suoi tempi.

E altrettanto spesso, i clienti ci stupiscono: arrivano con quadri che sembrano chiari ma che poi si rivelano tutt’altro; e le scelte che sembravano perfette magari si rivelano fuorvianti.

Senza lucidità, cercherò di fare di più, di dare più esercizi, più consigli e indicazioni del necessario.

Soffrirò insieme al mio cliente, portandomi il lavoro a casa, continuando a pensare e ripensare a quella persona, a cosa potrei fare di diverso per lei/lui.

Avrò la tentazione di esserci troppo, di dare troppa disponibilità di contatto tra un incontro e l’altro, finendo per prosciugare le mie energie e trascurare me e togliere spazio alla leggerezza di cui la mia vita ha bisogno (e anche il mio lavoro… per ricaricare le batterie).

Proverò fastidio verso il cliente che non fa gli esercizi, invece di comprendere il suo blocco e utilizzare quella difficoltà per fare un passo in avanti nel suo percorso di trasformazione.

Mi arrabbierò o giudicherò il cliente che non lascia il lavoro, non apre partita iva, non divorzia o non agisce come io penso sia meglio. E che glielo dica o no, il cliente lo sentirà che le cose non fluiscono.

Si sentirà sbagliatə ancora una volta, anche lì, con voi, nel suo spazio che dovrebbe essere libero e protetto. Magari compirà quelle scelte o quei passi prima di sentirsi davvero pronto/a, perché si fida di voi: invece di imparare ad ascoltarsi e a fidarsi di più di se stesso, trasformerà la propria vita perché si fiderà della vostra scelta.

Proprio come fa un bambino con i propri genitori.

Mentre un percorso dovrebbe renderci adulti e responsabili di noi stessi e delle nostre scelte.

Quando una persona compie un passo prima del tempo, le conseguenze possono essere devastanti: insicurezze, incertezze, sbagli, frustrazioni, pesantezze. E anche se andasse tutto liscio, avremmo fallito il compito educativo di costruire la fiducia che il cliente dovrebbe avere verso se stessə, che, dal mio punto di vista, è la cosa più importante in un percorso di trasformazione.

L’autonomia del cliente per me è sacra.

Ultima (non per importanza) conseguenza tremenda: penseremo di non essere dei bravi coach.

Penseremo che se il cliente non fa gli esercizi è colpa nostra, che se non ha ancora cambiato vita è colpa nostra, giudicheremo il nostro lavoro come inadeguato.

O meglio, il nostro Salvatore, in accoppiata con il nostro Critico Interiore (non ha bisogno di presentazioni vero? Già dal nome capisci a cosa mi riferisco?) ci faranno sentire così.

In questo modo si alimenterà la sindrome dell’impostore che ci stavamo tanto impegnando a tenere a bada.

Sintonia e Consapevolezza

Come si evitano tutte queste nefaste possibilità? (l’obiettivo dell’articolo non era di farti venire l’ansia, giuro! 😆).

Ci si guarda allo specchio con onestà per comprendere quanto spazio l’empatia esagerata o Salvatore abbiano nel nostro lavoro e nella nostra vita. Penso che in questo articolo tu abbia ricevuto molti spunti per comprenderlo (altrimenti ti aspetto nei commenti, possiamo confrontarci insieme!).

E si lavora per costruire un nuovo equilibrio, perché Salvatore non sia l’unico attore della nostra vita relazionale e professionale e per costruire la capacità sintonizzarci sull’altro senza farci coinvolgere, alla giusta distanza.

La sintonia è infatti la capacità di sintonizzarci sull’altro, cogliere le sue frequenze e le sue emozioni, ma restando neutrali. La sintonia non è fredda, è accogliente con i giusti limiti.

Solo se mi sintonizzo e comprendo l’altro, e dentro di me sono solidə e tranquilla, posso essergli davvero d’aiuto.

Perché avrò la lucidità di condurre l’altro a scoprirsi con i suoi tempi, modi, e in libertà.

La libertà di fare le proprie scelte sulla propria vita, scelte di cui vivrà a pieno le conseguenze e di cui si prenderà piena responsabilità.

Senza che questo sia motivo di giudicare il nostro lavoro: noi siamo qui per accompagnare i nostri clienti per attraversare più fluidamente alcuni passaggi di vita o per facilitare il loro successo e la loro realizzazione.

Non per sostituirci a loro: a differenza di un partner o di un familiare, le conseguenze delle sue scelte non ricadranno su di noi, non parlano di noi.

E come si fa?

Coltivare la sintonia e gestire il proprio Salvatore per ognuno può essere diverso: può servirti lavorare sulle tue insicurezze, sul tuo equilibrio, sulla tua centratura.

Ma anche sulle tecniche comunicative e relazionali che utilizzi nel tuo lavoro.

Proprio per questo nel Master “Crea il Tuo Percorso” e nella mia Scuola di Coaching “Professione Coach” è previsto sia una spazio di lavoro personale che lavori in modo specifico sulla relazione con il cliente: perché ogni professionista è prima una persona, e per ognuno la risposta può essere diversa.

Dopo aver letto queste riflessioni, come coltiveresti la tua sintonia?

Qual è la cosa più importante su cui hai bisogno di lavorare per migliorare la relazione con i tuoi clienti?

Ti aspetto nei commenti per parlarne insieme!

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